
di Santa Spanò

Il cibo è fondamentale, lo abbiamo notato anche durante la quarantena, è stato l’alleato di tv e social-media tra cucine casalinghe e cucina gourmet, intratteneva, confortava, creava relazioni, raccontava storie, il cibo entra a pieno titolo nelle relazioni individuali e collettive con il territorio, e quale luogo migliore della strada, che tanto ci è mancata, per parlare di piatti, alimenti e tradizioni.
Dalla cucina di casa ci trasferiamo alla cucina di strada, oggi siamo tornati a camminare, seppure con il dovuto distanziamento fisico, nelle strade, sicuramente disorientati dopo un lungo periodo di “confinamento”, forse c’è più che mai bisogno di ritrovarsi, ritrovare un’identità smarrita, ritrovare le persone, i luoghi, la convivialità e per molti ricostruirsi per ripartire.

Il cibo è un vero condensato di valori culturali, identitari e anche inclusivi, quando la percezione collettiva è di impotenza e smarrimento. Conosciamo quasi a memoria la frase del filosofo Ludwig Feuerbach «L’uomo è ciò che mangia», presa dal titolo di una sua famosa opera “Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia”, ispirata al “Trattato dell’alimentazione per il popolo” di Jakob Moleschott pubblicato nel 1850, il cibo è centrale e l’alimentazione viene posta alla base della crescita di una società, dello sviluppo del pensiero e più genericamente della cultura, perché un popolo si possa sviluppare occorre migliorarne le condizioni materiali, prima tra tutte l’alimentazione:
“L’alimento umano è il fondamento della cultura e del sentimento. Se volete far migliore il popolo, in luogo di declamazioni contro il peccato, dategli un’alimentazione migliore.”
(Ludwig Feuerbach, Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia, 1862)
E se il cibo può renderci migliori, migliorare la nostra condizione (cosa che nel tempo ha fatto), dobbiamo spostare il punto d’osservazione, non è cibomania, ma benessere, salute, costume e territorio. Il cibo di strada racconta tutto questo, anzi a raccontarlo è Basilio Santoro che ha dedicato tutta la sua vita alla radio e al teatro, direttore artistico di Radio 105 negli anni ’90, e poi Radio Capital, Gammaradio, LifeGate Radio, la compagnia teatrale dei Teatri Possibili di Milano, il Teatro Binario7 di Monza, i progetti Illogica Allegria e La Stanza dello Scirocco divenuti eventi teatrali. Poi nel 2004 ha cambiato, non brano musicale come ci aspetteremmo da un dj, ha rivoluzionato la sua vita reinventandosi “food trucker”.

Chi sono i “truchers”? È una parola anglofona per indicare chi avvia un Ape Car o “food truck” (furgoni per il cibo) per vendere cibo di strada, lo “street food” per dirla all’americana, il cibo che si può acquistare e mangiare in strada, questa volta però gli americani non hanno inventato nulla, l’usanza di cucinare per strada affonda le sue radici nell’antica Grecia e la sua diffusione nella civiltà romana fino ai giorni nostri. In ogni caso agli americani il merito di aver svecchiato i termini rendendoli “glam”, alla moda, così il cibo di strada diventa “street food” o “informal food”, il cibo mangiato con le mani è il “finger food” e gli ambulanti “truchers”.

Il cibo di strada ha attraversato i secoli, accompagnando trasformazioni e crisi, ha sfamato a basso costo, ha conservato sapori antichi, ha accolto e riunito persone; la stessa FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) richiama l’attenzione e porta avanti tutta una serie di politiche per espandere e rafforzare la rete di specialisti coinvolti nel commercio e nella governance del cibo di strada in tutto il mondo, i cibi di strada forniscono alimenti nutrienti a prezzi bassi e occupazione per milioni di persone, diffondendo, anche, e conservando importanti valori culturali e identitari.
Ogni regione d’Italia ha il suo cibo di strada, un sapore inconfondibile, semplice, antico, una preparazione fatta da mani che si sono tramandate da generazioni una ricetta, lavorando con sapienza ed entusiasmo un prodotto coltivato, allevato, con cura che affonda le radici nel suo territorio. Da Nord a Sud, dalla miassa piemontese, alla crescentina emiliano-romagnola, al lampredotto toscano, agli arrosticini abruzzesi, al panino con le frittole calabrese, alla stigghiola o al pane e panelle siciliano, per citare solo qualche piatto, la cucina di strada italiana immortala la storia e la tradizione di un paese.
Storia e tradizione la incontriamo anche sull’ape Bedda di Basilio Santoro, siciliano di nascita e milanese d’adozione che un giorno ha pensato: “… come sarebbe bello cambiare vita, andare per strada, fare il pane cunzato siciliano e vivere in piena libertà”. Pensato e fatto insieme alla moglie Tiziana: nasce La Bedda storia (labeddastoria.it).
Gli italiani hanno una straordinaria caratteristica, quella di essere flessibili e di trovare soluzioni alternative, i report odierni parlano di oltre mezzo milione di posti di lavoro perduti a causa del coronavirus. Tu hai avuto la capacità di reinventarti, cosa ti ha spinto a cambiare vita e come sei riuscito a realizzare il tuo nuovo progetto in un ambiente così diverso da quello artistico?
– Noi siamo energia pura, ogni sette anni tutte le nostre cellule si rinnovano, l’energia è in perenne trasformazione. Ci dimentichiamo troppo in fretta che siamo il risultato di uno spermatozoo, piccolo, forse meno di una capocchia di spillo, e guarda cosa siamo diventi, ci siamo anche dimenticati che cosa ha fatto, con determinazione questo ha fatto la sua corsa, battendo altri milioni, miliardi di spermatozoi per arrivare a fecondare l’ovulo. Ecco noi siamo quel risultato lì. E poi che facciamo nella vita? La buttiamo via, mettendoci nella nostra zona-comfort, sperando che non cambi nulla, ma questo è contro natura. La natura muore e rinasce continuamente, come le nostre cellule. Quando riusciamo a cambiare? Quando siamo in difficoltà. Quando siamo costretti cambiare. Ecco io benedico quando arrivano i momenti di crisi, perché mi costringono a cambiare a ritornare alla mia essenza di energia pura e trasformarmi. Quindi alla fine ho benedetto anche quando nel 2011 ho perso il lavoro i radio e mi sono dovuto reinventare. Tutti gli ambienti sono artistici, dipende con che occhi li guardi. A tale proposito ti lascio qui in poche righe tutte le trasformazioni che ho dovuto fare. Rigorosamente in siciliano:
Mi chiamu Basilio, ma me matri mà sempri chiamatu Basiluzzu, come u nomu du scogghiu ca c’è tra Panarea e Stromboli.
Da picciriddu u ballarinu vuleva fari, ma me patri dissi: – Ci manca sulu nu figgghiu ballarinu – .
Poi a tridici anni vuleva fari u chef, ma me patri dissi: -‘Nta cucina ci sta a fimmina -.
A diciott’anni arrivaru i radiu libberi e mi misi a fari u disck-jockey, me patri dissi: – Ma chiustu travagghiu è? –
E ora supra a me apa BEDDA e ‘nta me CasaBEDDA inzemi a me mugghieri Tiziana, fazzu: u ballarinu, u chef, u disc-jockey, l’atturi, cunzannu panini e cuntannu storie, e sunu sicuru ca ora me patri, da lassù finalmente riri.
Tu sei un BookJockey, cosa racconta alla gente la tua ape Bedda?
– La mia nostalgia della mia bella isola, che ho dovuto lasciare a soli 2 anni, ma che è viva ancora dentro di me, nonostante abbia perso pure la parlata, che a dirla tutta non ho mai avuto visto che a 2 anni un bambino parla poco.
Quanto, secondo te, lo street food può mantenere e far riscoprire le tradizioni di un territorio?
– Molto, è la strada il luogo ideale dove le genti s’incontrano, e il cibo è uno di quei gesti più conviviali che esiste.
Oggi si parla molto di filiera, km zero, sostenibilità, il cibo di strada rappresenta un valore nella catena alimentare, partendo dagli agricoltori, dai produttori, e in che modo?
– Sicuramente, per quanto riguarda la sostenibile il cibo a Km0 è perfetto, ma per quanto riguarda il far conoscere alla gente il cibo di strada di altre regioni è limitante. Il cibo di strada è una esperienza e più strada fai con il palato più arricchisci questa esperienza. Tiziana ed io sulla nostra ape BEDDA, visto che operiamo più che altro in Milano e dintorni facciamo cibo siciliano a km1400 circa.
Si pensa che il cibo di strada non sia né sano, né sicuro.
– Purtroppo questo, come in tutte le cose, sta nell’onestà di chi fa questo tipo di somministrazione, della loro passione, del loro amore per il territorio e del rispetto per il prossimo. Chi mette, come molti, tanti, troppi, il profitto in cima ad ogni cosa, come purtroppo ormai avviene in ogni settore dell’economia, non gli interessa il bene degli altri e quindi il bene comune, penso profondamente che a questi non importa neppure del proprio bene, quello dell’anima intendo.
Quali sono le vostre specialità, da dove arrivano, che gusti incontrano?
– La nostra specialità principale è il pane cunzato, fatto nel modo più classico, con pomodori, formaggio e acciughe, spaziando ad altre ricette tipiche, come quello con la caponata, la ricotta infornata e foglia di menta, o quello con la salsiccia con finocchietto selvatico, patè di olive nere di Castelvetrano, scorza d’arancia di Ribera grattugiata, o quello con la porchetta delle Madonie, e provola dei Nebrodi. Ogni tanto sull’ape portiamo anche gli arancini e i cannoli. Ma il cuore della nostra proposta rimane il pane cunzato, che poi è quello che viene apprezzato di più perché ogni volta ci inventiamo una ricetta nuova, come ad esempio l’ultimo Stromboli, con crema di peperoncino che rappresenta il fuoco del vulcano, il patè di olive nere che rappresenta il nero delle spiagge dell’isola, la ricotta fresca che con il suo colore bianco ricorda il colore delle facciate delle case oliane, le acciughe a portare i sapori del mare e i capperi per i profumi dell’isola. I nostri pani cunzati sono anche contati, ogni pane ha una storia e io da buon bookjockey , ma anche un po’ da cuntastorie le racconto, e questo viene molto apprezzato dai clienti, siamo esseri umani, siamo fatti di corpo e spirito e dobbiamo alimentarli entrambi. Il nostro motto è:
“cu mancia e leggi crisci, cu nun mancia e nun leggi sparisci”.
Le nostre azioni sono il nostro futuro, la tua ricetta per chi deve affrontare più di altri questa crisi, senza rinnegare la propria identità?
– Abbiamo bisogno di più sentimento, che faccia scaturire pensieri buoni nuovi, parole buone nuove, azioni gentili nuove; che vanno al di là dell’economia che abbiamo costruito, legata complessivamente al profitto, che ci ha portato dove ci ha portati, e che questo CoronaVirus ha messo in un angolo, obbligandoci a fermarci. In questa tragedia pandemica, ho percepito il valore del tempo, in tutte le sue sfumature. Il tempo veloce che serve per salvare vite. Il tempo lento della quotidianità casalinga. Il tempo dell’ascolto per poter sentire il nostro respiro e mettersi in contatto con noi stessi. Il tempo non è denaro come si dice [soprattutto al nord] in economia, il tempo è prezioso. Se non si capisce fino in fondo questa differenza, non si costruirà una società umana, rispettando l’identità di ognuno. Ma purtroppo all’orizzonte ancora non vedo questo pensiero. Ho la sensazione che questa quarantena, questo isolamento, questo tempo da poter dedicare alla riflessione, non lo abbiamo sfruttato. Peccato!
In attesa di tornare on the road, sulla strada, Basilio e Tiziana sono ripartiti da Casa Bedda. Il cibo di strada siciliano trova infatti casa a Milano, la loro casa, che ha intanto riaperto le porte con il take-away e gli apertivi narrativi via online nel weekend e da poco sono ripartiti con gli eventi aggiungendo più di un posto a tavola in piena sicurezza.
“Per noi il cibo di strada esprime al meglio le identità e tradizioni locali. Quello siciliano è poi un vero e proprio crocevia di culture con i suoi sapori mediterranei contaminati dalle terre bagnate dal grande mare. Per questo motivo, oltre a portarlo in giro con l’apecar, abbiamo voluto trovargli una casa: CasaBEDDA.” (https://labeddastoria.it/casabedda/)
Un’altra “bedda” storia…