
Tra i recenti incontri, quello occasionale ma molto interessante con Maurizio de Caro, architetto, artista, musicista, compositore. Le “10 domande a” tracciano il profilo di un professionista inedito, che mette la vita e le esperienze al primo posto, per arrivare a un bagaglio culturale denso e capace di informare tutto il lavoro progettuale. Espressioni forti e interessanti, per una intervista da leggersi tutta d’un fiato.

Sei un individuo “multipotenziale” come ben descrive Emilie Wapnick”. Non hai una vera e propria vocazione. Ti interessi a tutto. E la tua architettura, il tuo approccio, in qualche modo lo dichiarano? Cosa pensi di questo?
In effetti non ho mai avuto una vocazione particolare per l’architettura, perché ho sempre avuto interessi molto variegati, dalla musica alla letteratura, dal cinema all’arte contemporanea, ma questo l’ho vissuto come la costruzione di una prassi metodologica.
Ho sempre immaginato che molte discipline dovessero far parte del percorso umanistico necessario per la formazione dell’architetto.
Ma come sai, mi sono sempre considerato un teorico dell’architettura con scarso interesse per la pratica, per la realizzazione dei progetti.
Mi sento uno spirito quasi rinascimentale che insegue paradigmi disciplinari senza paura di perdersi nelle gerarchie concettuali.
Capirai bene perché mi sento molto a disagio in questo contesto contemporaneo che vive di marketing e semplificazione.

Nella tua vita, nei tuoi percorsi esteri, hai conosciuto molte persone importanti. Che mi hai detto rivelarsi individui normali. Personaggio pubblico e privato. Ce ne accenni?
Ho conosciuto, prima di tutto, i grandi maestri italiani: Baldessari, Ponti, Muzio, Minoletti o figure particolari come Guglielmo Mozzoni. Ovviamente ho conosciuto Rem Koolhaas e Zaha Hadid all’Architectural Association di Londra, Colin Rowe, Ben van Berkel e molti altri.
Tra gli artisti ricordo come straordinario Nam June Paik e critici come Harald Szeeman con cui ho collaborato ad alcune mostre sul nostro amato Joseph Beuys, insieme alla Baronessa Durini, la più grande collezionista d’arte contemporanea del nostro paese.
Con Mario Bellini ho collaborato per un triennio e ho condiviso alcune passioni, come la musica e il cinema. Manfredo Tafuri mi aveva colpito per la semplicità e la disponibilità (l’ho conosciuto credo da studente) e poi ancora Oscar Niemeyer, sconvolgente maestro incontrato a Rio nel suo meraviglioso studio.
Ho conosciuto e frequentato tantissimi artisti, registi, critici d’arte, musicisti come Bennato o Stockausen (un mistico silenzioso), vai scrittori ma anche Pippo Baudo, amico di mio padre, uno degli uomini più simpatici che abbia mai conosciuto e Keith Haring, alla sua prima mostra in Italia, così come la fotografa Maria Mulas.
Nessuno di questi assomiglia a quello che rappresenta forse perché la società ha decretato per loro ruoli pubblici che creano maschere e corazze o forse quell’aura che li rende diversi da quello che in realtà sono.
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